Prolegomeni ad un corretto approccio alla musica antica
La pratica della musica antica[1] impone, più di altri repertori, una riflessione sulla qualità delle edizioni e sulla consapevolezza che si deve esigere da parte di chi si rapporta con un mondo sonoro, teorico e notazionale lontano. Nel presente contributo cerco di offrire alcune linee per orientarsi nel variegato e periglioso mare delle edizioni: una riflessione a cavallo tra rule of thumb e rigore scientifico, valida e utile, almeno in parte, anche per le edizioni di musica dei secoli successivi.
Alcune premesse sono indispensabili. Punto primo: non si può affrontare il repertorio antico senza conoscerne il linguaggio quanto basta. Un po’ come dire: “non mettetevi alla guida di un mezzo senza conoscere il codice stradale”. Sembra un’indicazione scoraggiante, quasi contradditoria, per aprire il discorso. Ma la musica dei secoli passati-soprattutto quella scritta prima dell’avvento della notazione moderna e del linguaggio tonale-esige alcune conoscenze fondamentali che riguardano l’usus scribendi (e legendi) dei compositori/cantori di un tempo anche molto lontano e dal carattere talvolta enigmatico[2]. Mensuralismo[3], modalità[4], solmisazione[5], contrappunto[6], musica ficta[7]: sono solo alcuni dei termini che non possono essere sconosciuti a chi si addentra nel settore. Oggi la bibliografia in materia è ampia e dettagliata[8]: occorre solo il tempo di affrontarla. Va da sé che è altamente sconsigliabile porre mano ad un’edizione senza averne le competenze: una buona esecuzione che si fonda su un’edizione pessima o fraintesa è peggiore di una mediocre esecuzione storicamente informata e condotta su di un’edizione precisa e compresa.
Punto secondo: una valida edizione è più di una buona trascrizione, ma non può prescindere da questa. Non può limitarsi-per usare le teorie coniate dal biblista Eugene Nida-ad una traduzione ad equivalenza formale[9]. In un lavoro di traduzione occorre traslare un testo da un paradigma linguistico ad un altro, senza zone d’ombra che consentano a chi traduce di fuggire la responsabilità delle scelte e costringano il lettore a tentare di sostituirsi al curatore. Una trascrizione è un atto di responsabilità da parte di chi la redige e deve essere una risorsa preziosa-fedele e trasparente-per chi ne fruisce. Chi trascrive deve dunque avere una conoscenza profonda del linguaggio tradotto, nella logica di una equivalenza dinamica: deve cioè dire, senza tradire, ciò che il testo dice con tutta l’efficacia della nuova lingua[10]. Diffidate di chi si limita a proporre una parziale traslitterazione dei dati spacciandola per ‘fedeltà’: in realtà, lascia il lettore in balìa di quella che è, nel migliore dei casi, un’edizione diplomatica[11] a metà.
Punto terzo: un’edizione critica è un’operazione intellettualmente onesta e trasparente, un lavoro condotto secondo criteri scientifici di serietà e professionalità. Chi la appronta deve quindi recensire tutti i testimoni conosciuti e disponibili, collazionarli con cura e scegliere un esemplare di collazione, indicare le varianti, offrire un apparato critico completo di tutte le informazioni utili, precisare i criteri editoriali, mantenere ben distinti gli elementi presenti nell’originale da quanto aggiunto dal curatore, preparare un’edizione del testo letterario (qualora necessaria), e via dicendo[12]. Insomma: deve poter offrire la possibilità a chi legge di fare il percorso a ritroso verso l’originale. Deve permettere di prendere decisioni che si discostano dal curatore (ma non dal dato originario), valutando le scelte fatte in ogni singolo passaggio ed eventualmente farne altre, non nell’arbitrio dell’incompetenza, ma nella libertà dell’interpretazione dei dati non univoci.
In concreto, mi pare si possano mettere in evidenza almeno nove aspetti che rivelano una buona edizione, capace cioè di ‘parlare’ con chiarezza e precisione.
1) Un’edizione condotta con scrupolo e cura permette, fin dalle prime pagine, di rispondere alla domanda: “che cosa ho fra le mani?” Presenta con linearità ciò di cui ragiona, indica con chiarezza il tipo di edizione, descrive i testimoni utilizzati (a stampa e manoscritti), fornendone la sigla RISM[13] (qualora censiti) e la collocazione fisica utile a identificare con certezza il singolo manufatto, offre i criteri editoriali secondo quanto ricordato sopra[14]. A riguardo dell’edizione del testo musicale, la distinzione tra edizione critica e edizione pratica, ad un livello professionale, non ha ragion d’essere: una buona edizione critica deve essere strumento per una corretta prassi musicale, così come non è più accettabile pensare che quest’ultima possa fondarsi su edizioni ‘minori’, che si accontentano della versione vulgata[15].
2) Venendo alle trascrizioni, la disposizione in parti vocali presenti nell’originale va ricollocata in partitura e deve sempre essere preceduta da una ‘finestra’ che riporta (in edizione diplomatica o in formato immagine) l’incipit di ogni parte. Questo, a mio parere, anche se i criteri editoriali sono stati esplicitati nella loro sede.
3) L’uso delle moderne chiavi[16] pare essere divenuto ormai indispensabile. Il motivo, tuttavia, non è certo lusinghiero, dovendolo ricercare nella pigrizia dei direttori/cantori moderni-anche professionisti-di confrontarsi con un sistema considerato a torto ostico. Sarebbe auspicabile, a mio modesto parere, un ritorno all’uso delle chiavi antiche, almeno per tre ragioni: 1) fanno parte appieno del sistema notazionale moderno; 2) rendono assai più evidente la logica che guida il movimento delle singole voci in un certo ambitus; 3) sono un ottimo strumento pedagogico per lo sviluppo della lettura e della comprensione del linguaggio contrappuntistico. Di grande utilità è poi la segnalazione, voce per voce, degli estremi della tessitura, che permette un immediato riconoscimento dell’estensione richiesta[17].
4) I segni mensurali, anche quelli che si ritrovano nella semiografia contemporanea (ad esempio C o ), devono essere sempre tradotti in moderne frazioni (2/2, 2/1, ecc.)[18]. Un’edizione che mantiene questi segni-il cui significato moderno è ben lontano da quello mensurale-rivela già la scarsa responsabilità da parte del curatore, che deve avere coscienza del significato formale e contestuale degli stessi e tradurli correttamente.
5) La necessità di applicare una trasposizione è indicata dal sistema di chiavi originali[19]. L’intervallo di trasposizione, tuttavia, non è un dato scontato, quasi meccanico[20], né lasciato del tutto al direttore: entra infatti in gioco la variabilità geografica del diapason[21]. La trascrizione deve rispettare l’altezza originale delle voci. Personalmente ritengo un ottimo servizio, però, indicare un intervallo di trasposizione suggerito dalle conoscenze musicologiche sulle usanze del luogo di composizione o di destinazione di un’opera. Filologia e prassi esecutiva si occupano di oggetti diversi-il testo e il gesto sonoro-, ma indicazioni ben ponderate e motivate sono sempre un prezioso aiuto per far crescere una historically informed practice che guarda al contesto, oltre che al testo.
6) In partitura deve comparire solo quanto presente in originale, senza aggiunte e senza equivoci: quanto suggerito dal curatore va posto al di sopra del rigo o altrove. Nei casi dubbi relativi alla musica ficta è preferibile non accompagnare i segni con punti interrogativi, ma operare una scelta, indicando nell’apparato critico l’ambivalenza della situazione: sarà poi il lettore a decidere se applicare o meno quanto suggerito. Un caso particolare è rappresentato dai segni di diesis con valore di B durum nei casi in cui non va applicata la regola una nota supra la[22]: questa indicazione deve essere mantenuta in partitura, tradotta nel moderno segno di bequadro. Si tratta infatti di un’alterazione esplicita che ne annulla un’altra implicita, nel contesto modale della solmisazione[23].
7) I cambi intermedi di mensura devono sempre essere accompagnati dall’indicazione del rapporto di equivalenza di figure tra una sezione e l’altra[24]. L’eventuale dimezzamento dei valori in alcune sezioni è una scelta da ponderare bene: in alcuni casi più utile, in altri meno, altrove del tutto sconsigliata[25]. Ligaturae e colores devono essere segnalati rispettivamente mediante parentesi quadre e tratti angolari che abbraccino tutte le note interessate dalla coloratura[26].
8) Il testo deve essere collocato sotto la linea musicale con cura[27] e in carattere ordinario. Il carattere corsivo precisa il testo aggiunto in luogo del segno di ripetizione (ij), mentre tra parentesi quadre si indicano le integrazioni del curatore[28]. Quanto alle varianti linguistiche, per testi comuni come quelli dell’ordinario della Messa, prevale la versione dell’editio typica. Per altri, il discorso si fa più complesso, trattandosi spesso di testi più liberi: in questi casi non deve mancare una sezione dedicata all’edizione del testo, dove si affronta il problema.
9) L’eventuale intonazione gregoriana-come nel caso di salmi, Magnificat, Gloria, Credo, ecc.-, e gli interventi in canto piano per i brani in alternatim, è bene siano aggiunti dal curatore nel caso in cui siano dati per scontati (o solo accennati) nell’originale[29]. In questi casi è d’obbligo riferirsi alle fonti liturgico-musicali storicamente e geograficamente pertinenti, non a quelle in uso in altri tempi e luoghi. Per fare un esempio: non è musicologicamente corretto analizzare i canti firmi di Josquin Desprez prendendo a modello le melodie ‘restituite’ presenti nelle edizioni novecentesche legate alla scuola di Solesmes o dei suoi discepoli[30]. Spesso la ricerca non è agevole, ma è degna di nota un’edizione che non confonde i piani e rimanda alle fonti di canto fermo (presumibilmente) vicine all’autore oggetto d’indagine.
Al termine di questo percorso, spero di aver offerto una pista sintetica per confrontarsi con il mare magnum delle edizioni musicali circolanti. Districarsi tra una selva di self made editions (spesso, più che altro, badly made) è assolutamente indispensabile per ogni direttore che voglia confrontarsi con la musica antica in modo serio e rigoroso. Questo non significa che tutto ciò che circola, anche in rete, sia da scartare: ci sono ottime edizioni messe a disposizione gratuitamente da curatori preparati e generosi, che condividono liberamente le proprie fatiche, e altre, titolate e onerose, che si rivelano sorprendentemente imprecise e perniciose. Come sempre, gli strumenti restano tali: la scelta e la responsabilità del loro uso spetta a ciascuno di noi, con coscienza e attenzione.
[1] In questo contributo l’aggettivo ‘antica’ si riferisce, in modo particolare, al repertorio tràdito in notazione mensurale bianca.
[2] Si veda, ad esempio, Katelijne Schiltz, Music and Riddle Culture in the Renassaince, Cambridge, 2015.
[3] Si vedano, solo per citare alcuni titoli: Ruth I. DeFord, Tactus, Mensuration and Rythm in Renaissance Music, Cambridge, 2015; Anna Maria Busse Berger, Mensuration and Proportion Signs: Origin and Evolution, Oxford, 1993; Georges Houle, Meter in Music, 1600-1800, Bloomington, 1987.
[4] Si vedano: Frans Wiering, The Language of the Modes. Studies in the History of Polyphonic Modality, New York, 2001; Bernard Meier, I Modi della polifonia vocale classica. Descritti secondo le fonti, Lucca, 2015; Harold Powers, Tonal Types and Modal Categories in Renaissance Polyphony, in «Journal of the American Musicological Society», Vol. 34, No. 3, 1981, pp.428-70; Harold Powers, From Psalmody to Tonality, in Tonal Structures in Early Music, a cura di Cristle Collins Judd, New York, 2000, pp. 275-340; Cristle Collins Judd, Renassaince modal theory: theoretical, compositional, and editorial perspectives, in The Cambridge History of Western Music, op. cit., pp. 364-406.
[5] Si vedano: David E. Cohen, Notes, scales, and modes in the earlier Middle Ages, in The Cambridge History of Western Music, a cura di Thomas Christensen, Cambridge, 2002, pp.307-63; Dolores Pesce, The Affinities and Medieval Transposition, Bloomington, 1987.
[6] Si vedano: Peter Schubert, Counterpoint pedagogy in the Renassaince, in The Cambridge History of Western Music, op. cit., pp. 503-33; Margaret Bent, Counterpoint, Composition and Musica Ficta, New York, 2002; Renato Dionisi–Bruno Zanolini, La tecnica del contrappunto vocale nel Cinquecento, Milano, 2001.
[7] Si vedano: Karol Berger, Musica Ficta: Theories of Accidental Inflections in Vocal Polyphony from Marchetto da Padova to Gioseffo Zarlino, Cambridge, 1987; Margaret Bent,op. cit.
[8] Si vedano ancora: Willi Apel, La notazione della musica polifonica dal X al XVII secolo, Firenze, 1984 (volume fondamentale); Francesco R. Rossi, De musica mensurabilis. Manuale di notazione rinascimentale, Lucca, 2013 (con un intento più pratico); Vania Dal Maso, Teoria e pratica della musica italiana del Rinascimento, Lucca, 2017 (un utile compendio di indicazioni tratte dai trattatisti italiani); Jessie Ann Owens, Composers at Work. The Craft of Musical Composition 1450-1600, Oxford, 1998 (interessante per la singolare prospettiva).
[9] Eugene Nida – Charles. R. Taber, The Theory and Practice of Translation, Leiden, 1969.
[10] Nida sosteneva che una traduzione dovesse: 1) rispettare il senso originale; 2) trasmettere lo spirito; 3) utilizzare una forma di espressione semplice e naturale; 4) produrre una risposta simile a quella del lettore del testo originale.
[11] è l’edizione che “ha lo scopo di riprodurre esattamente quanto si legge in un testimone, senza interventi editoriali” (Maria Caraci Vela, La filologia musicale. Istituzioni, storia, strumenti critici, vol. I, Lucca, 2015, p.230).
[12] Si vedano a riguardo: Maria Caraci Vela, op. cit., 3 voll, (testo fondamentale per un approccio globale alla materia); La critica del testo musicale, a cura di Maria Caraci Vela, Lucca, 1995; Problemi e metodi della filologia musicale. Tre tavole rotonde, a cura di Stefanio Campagnolo, Lucca, 2000.
[13] Acronimo di Répertoire International des Sources Musicales, l’organizzazione internazionale fondata a Parigi nel 1952 con lo scopo di documentare il più esaustivamente possibile le fonti musicali presenti in tutto il mondo.
[14] Si veda Caraci Vela, op. cit., pp. 179-220.
[15] Il rifiuto della vulgata, cioè del textus receptus, ovvero del testo “nella sua forma più diffusa e riproposta, non passato attraverso il vaglio della critica del testo” (Caraci Vela, op. cit., p. 242), è il primo punto del metodo stemmatico formulato da Paul Maas nel 1927.
[16] Sol2, Sol2 ottavizzata e Fa4.
[17] Un elemento utilissimo, inspiegabilmente scomparso nella semiografia moderna, è il custos: chi canta in un coro sa in quante occasioni se ne sente la mancanza.
[18] Con l’equivalente divisione in battute mediante stanghette tra i righi, meglio ancora senza spezzare i valori a cavallo delle stesse con l’uso di legature.
[19] Ad esempio, in presenza di chiavette in luogo delle chiavi naturali. Si vedano a riguardo: Patrizio Barbieri, ‘Chiavette’ and Modal Transposition in Italian Practice (c. 1500-1837) “Recercare”, vol. 3, 1991, pp. 5–79; Andrew Johnstone, ‘High’ Clefs in Composition and Performance, “Early Music”, vol. 34, n. 1, 2006, pp. 29-53.
[20] In altre parole: va oltre il consueto abbassamento di una quarta in caso di bemolle in chiave o di una quinta in sua assenza.
[21] Tra il Piemonte e Roma, ad esempio, il diapason variava addirittura di una terza minore. Pietro Heredia nel 1637 invia da Roma a Vercelli la sua Missa XI.mi toni (un tempo conservata presso l’Archivio Capitolare di Vercelli, poi trafugata e oggi presente solo in fotocopia). Sul frontespizio della partitura si specifica che la Messa, scritta (a Roma) in Effaut, va cantata (a Vercelli) in Desolre, altezza nella quale è scritto il basso seguente, precisando che le voci vanno abbassate di una terza anche nel caso di esecuzione senza l’organo.
[22] “Una nota supra la semper canendum est fa” era la regola secondo la quale, in sede di solmisazione, quando la melodia usciva di un solo intervallo congiunto dall’ultima nota dell’esacordo di provenienza (la, in sillabe o voces), la nota era intesa come distante un semitono diatonico dalla precedente, e dunque solmisata come fa.
[23] Che, è bene ricordarlo, procede per esacordi e non per ottave.
[24] Cioè la figura x precedente, su cui si basa il tactus, è ora rappresentata dalla figura y seguente: “x = y”. Analoga indicazione di equivalenza va riportata ad ogni cambio, eventualmente rovesciata nel caso si ritorni alla mensura precedente.
[25] Nel caso venga applicato, occorre ovviamente indicarlo nell’apparato critico. In partitura lo si può utilmente segnalare, ad esempio, con la formula “n1 ex n2”, in cui n1 è il valore della nota in trascrizione (sempre meglio indicare il valore che si riferisce al tactus) e n2 lo stesso valore in originale. Tendenzialmente oggi, per il repertorio rinascimentale, si preferisce mantenere i valori originali.
[26] Nel caso di minor color, anche la nota (o le note) il cui valore è sottratto a quella precedente.
[27] Nelle stampe e nei manoscritti antichi il testo è spesso collocato sommariamente, in un contesto nel quale il cantore esperto era perfettamente in grado di adattarlo estemporaneamente alla musica. Spetta al curatore moderno, oggi, provvedere a questa operazione in sede editoriale, nel rispetto delle regole fornite dai trattati antichi (un’utile sintesi di alcuni autori in Vania Dal Maso, op. cit., pp.298-305). Ci sono edizioni, anche ad opera di professionisti di chiara fama, che presentano talvolta una collocazione del testo errata o imprecisa, spesso addirittura senza tenere conto della presenza o dell’assenza di ligaturae, elementi semiografici preziosi per il cantore antico e il curatore moderno.
[28] Ad esempio, nei casi di una lacuna nell’originale.
[29] Ovviamente segnalando, graficamente e in apparato, che si tratta di aggiunte del curatore.
[30] Come avviene proprio nella prestigiosa New Josquin Edition (29 voll., Utrecht, 1987-2017), nel cui apparato critico, relativamente al Cantus prius factus di alcune composizioni, si prende a confronto la versione melodica dell’Antiphonale Monasticum-frutto del lavoro dei monaci di Solesmes, edito nel 1934-, accompagnata dalla citazione di codici inglesi del XIII secolo, senza indagare le possibili fonti alle quali Josquin avrebbe potuto aver attinto, magari al tempo della sua formazione, tra XV e XVI secolo.