La coralità d’ispirazione popolare 
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La coralità d’ispirazione popolare 

Origini e diffusione di un genere tanto amato

Inauguriamo questa  nuova rubrica, con il prezioso e autorevole contributo del prof. Ignazio Macchiarella, Ordinario di Etnomusicologia presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Cagliari, autore di diversi lavori sulla coralità popolare.  

Dove e quando ha avuto origine il fenomeno della coralità d’ispirazione popolare in Italia?

La nascita di un coro di questo genere si fa risalire, convenzionalmente, al 24 maggio del 1926. Quel giorno, nel Castello del Buonconsiglio di Trento, un gruppo di cantori della SOSAT (Sezione Operaia della Società Alpini Tridentini) tenne il primo concerto pubblico, proponendo semplici elaborazioni di brani tradizionali trentini. Nel 2026 sarà il 100º anniversario e già fervono i preparativi per le celebrazioni.

Questa data è puramente simbolica, dal momento che non mancano testimonianze di esibizioni antecedenti di formazioni corali organizzate, risalenti anche al XIX secolo, che fanno riferimento all’importazione di consuetudini corali di provenienza germanofona. A partire dagli anni Trenta questo modello corale registra una grande diffusione in Italia e viene usato come emblema del mondo alpino. Il fascismo, in particolare, ha incentivato tale pratica musicale in chiave propagandistica, soprattutto nell’ambito dell’Opera Nazionale Dopolavoro, con la collaborazione di noti compositori del tempo, come Francesco Balilla Pratella.

Copertina del Lp Sardegna canta e prega, Coro Barbagia di NuoroLa coralità d’ispirazione popolare 
Copertina del Lp Sardegna canta e prega, Coro Barbagia di Nuoro

Un capitolo a sé stante è costituito dalla rinascita del fenomeno, nel secondo dopoguerra, nella città di Nuoro. Una rinascita che si basa ovviamente su presupposti musicali differenti rispetto all’attività dell’OND. Un fenomeno significativo, segnato da un intenso e progressivo fiorire di gruppi corali che meriterebbe un maggiore approfondimento. Per dire, perché questa rinascita ha avuto luogo a Nuoro e non altrove? Sicuramente un ruolo fondamentale hanno avuto alcune individualità musicalmente intraprendenti che operavano nel capoluogo barbaricino, ma si può anche pensare che vi fosse qualche elemento specifico nei processi locali di costruzioni identitarie: insomma sulla questione delle origini e sviluppo dei cori di ispirazione popolare c’è ancora molto da indagare.

Com’è stato il passaggio dall’ oralità alla scrittura?

Molti anni fa ho avuto modo di parlare più volte con Silvio Pedrotti, uno dei protagonisti della coralità trentina del secondo Novecento. Nei suoi ricordi, i primi canti del repertorio Sosat non necessitavano la scrittura, poiché si trattava di armonizzazioni molto semplici: praticamente delle formule trasmesse “ad orecchio” per accompagnare una melodia solista ( basta consultare l’archivio on-line Silvio Pedrotti per rendersene conto). Di fatto, la scrittura veniva usata per costruire un repertorio. Il consolidarsi dell’uso della scrittura ha cominciato ad offrire, ovviamente, nuove possibilità di articolazione delle parti e quindi ha elevato progressivamente il livello tecnico del risultato musicale.

Interno del LP Sardegna canta e prega. Coro "Barbagia" di Nuoro
Interno del LP Sardegna canta e prega. Coro “Barbagia” di Nuoro

In tempi recenti, lo sviluppo dei nuovi media ha offerto inedite soluzioni che vanno ben al di là del consueto rapporto oralità scrittura, del passaggio bocca/orecchio. Per esempio, è possibile estrapolare da una esecuzione polifonica una singola linea melodica, fatto che rende molto più semplice la trasmissione e l’apprendimento di ciascuna singola parte, senza dover passare dalla scrittura, determinando una nuova forma di oralità, spesso chiamata oralità secondaria. 

Quanto è diffuso il fenomeno della coralità d’ispirazione popolare in Italia? 

Tantissimo. Basta fare “un giro” su internet per constatare le dimensioni del fenomeno diffuso, non solo nelle regioni dell’arco alpino, dove si dice che “cantino anche le pietre”, ma anche in regioni come l’Emilia, la Romagna, la Puglia, il Lazio, la Sicilia.

Perché si entra a far parte di un coro?

Gli stessi coristi, se intervistati sulle motivazioni, dichiarano di essere spinti da una forte e sincera passione per il canto e le tradizioni legate alla propria terra. È certamente vero. Credo comunque che alla base vi sia il desiderio e il piacere di stare insieme agli altri. La musica, in un certo senso, viene subito dopo. Cantare in un coro significa rinunciare a qualcosa di sé (il corista non può fare/cantare quello che vuole dentro un coro!) e dover accettare il ruolo leader del maestro. In cambio, la pratica corale offre il piacere speciale del condividere del “tempo di qualità”, del vivere la piena esperienza di sé e dell’interazione con gli altri. Il corista “è” il suono che produce: da ciò, in fin dei conti, deriva quel che si canta, il repertorio, le scelte musicali e così via.  

Che qualità bisogna avere per far parte di un coro? 

 Principalmente bisogna essere in grado di accettare gli altri e avere la disponibilità ad interagire e rapportarsi con loro. Questo non sempre è facile, ed il risultato è sempre qualcosa di socialmente rilevante. Un mio caro amico della Corsica mi dice sempre che cantare in coro è “l’ultimo spazio di democrazia che ci è rimasto”. Ricco o povero, qualunque sia il tuo lavoro e la posizione sociale nella vita di ogni giorno, se vuoi cantare in un coro, devi sottostare alle regole per tutti. È un po’ drastico, ma credo si possa essere fondamentalmente d’accordo. Le qualità della voce ci vogliono, ma non sono sufficienti. Ho conosciuto diversi casi di persone dotate di belle voci, che non riescono a fare parte di un coro proprio per queste ragioni (e conosco anche cantori con voci non proprio belle ma che, nel rispetto delle regole, a cantare in un coro ci riescono). 

Qual è il ruolo del direttore? Origini e diffusione di un genere tanto amato

 Il direttore è il perno del coro, colui che garantisce l’applicazione delle regole, che fa in modo che i cantori possano reciprocamente interagire nel migliore dei modi. Non è solo una faccenda di padronanza della teoria musicale. Una trentina d’anni fa a Trento, collaborando ad un progetto diretto dalla musicologa Rossana Dalmonte, ho conosciuto un direttore in difficoltà (diciamo così) con la lettura delle partiture e con la teoria. Era un signore anziano, contadino, a cui tutti i coristi volevano un gran bene, e gli riconoscevano una grande autorevolezza nella conduzione e la capacità di saper mediare e amalgamare persone e voci, rispettando quella che loro definivano come “la vera tradizione del canto alpino”. Tutti seguivano attentamente le sue indicazioni, perché si fidavano ciecamente di lui. Ma la direzione di quel coro aveva deciso di cambiare rotta e affidare il coro ad un diplomato in Conservatorio perché, insomma, non si poteva andare in giro a far concerti anche all’estero con quel direttore! Bisognava andare avanti! Non sto a raccontare delle vicissitudini di questo passaggio che il lettore potrà immaginare, con coristi che hanno abbandonato, lunghe discussioni … 

Cantare in pubblico “fa paura”: in certo senso è un mettersi a nudo, esporsi al giudizio di chi ascolta (si chiama stage fright: c’è una lunga bibliografia sull’argomento). E fa ancora più paura a dei musicisti non professionisti, che mancano delle sicurezze garantite dalla pratica quotidiana, dalla specializzazione tecnica eccetera. Ed è perciò fondamentale che nei cori amatoriali si instauri un rapporto particolare fra direttore e cantori, che vi sia una reciproca confidenza: essere un buon direttore non è solo una faccenda di titoli accademici.

Silvio Pedrotti (Trento, 1909 - 1999, fondatore del Coro della SAT, insieme ai fratelli Enrico, Mario e Aldo, e direttore dello stesso per oltre cinquant'anni, cultore del canto popolare, fotografo e alpinista
Silvio Pedrotti (Trento, 1909 – 1999, fondatore del Coro della SAT, insieme ai fratelli Enrico, Mario e Aldo, e direttore dello stesso per oltre cinquant’anni, cultore del canto popolare, fotografo e alpinista.

Quindi sembrerebbe che, negli anni, le esigenze di un coro popolare, rispetto al direttore, siano andate cambiando e si siano orientate verso una maggiore professionalità artistica? 

Sì è così. Lo studio trentino a cui prima accennavo dimostrava questa tendenza in tutti i cori studiati. Una tendenza, sia chiaro, del tutto normale: fare musica, qualsiasi tipo di musica, anche quella cosiddetta tradizionale, non è un semplice ripetere ogni volta le stesse note. La musica è sempre in continua trasformazione ed è quindi naturale che ogni pratica musicale utilizzi i propri mezzi espressivi a disposizione per “andare avanti”, consapevolmente o meno, nel proprio discorso musicale.

Come è visto questo fenomeno dei cori d’ispirazione popolare dall’Etnomusicologia ufficiale? Origini e diffusione di un genere tanto amato

Per molto tempo questo tipo di polifonia è stato oggetto di critica da diversi studiosi europei in quanto accusata di mancanza di autenticità: ciò accadeva in Trentino e nel resto d’Italia, ma anche in Francia, ad esempio, con le corali Orpheon e così via. Tali convinzioni oggi sono del tutto superate perché basate sulla errata convinzione che la musica tradizionale fosse immobile, persistente nel tempo, una convinzione la cui infondatezza è stata scientificamente dimostrata. 

È a conoscenza di qualche etnomusicologo che si stia occupando di questo ambito?

Sì, c’è un giovane etnomusicologo molto bravo all’Università di Trento, Guido Raschieri, che sta per pubblicare un bel libro sull’argomento (che cortesemente mi ha fatto leggere in anticipo). Il problema è che, come etnomusicologi professionisti, siamo davvero pochi e quindi, inevitabilmente, certi fenomeni musicalmente significativi non vengono adeguatamente studiati.

La montanara

Qualcuno si aspetta che l’Etnomusicologia debba dare una sorta di giudizio o di patente di autenticità sui canti o sugli interpreti. Qual è il suo pensiero in merito a questa richiesta?

Assolutamente no!! “Autenticità” e “musica” insieme costituiscono un ossimoro. L’autenticità (come l’identità) è un costrutto virtuale differente a seconda dei gruppi che lo creano, dei periodi in cui ciò avviene e così via. E lo stesso la musica, come accennato. Purtroppo di recente, sulla scorta di una equivoca ricezione delle politiche culturali dell’Unesco (in particolare il progetto ICH, in Italia noto come “patrimonio culturale immateriale”) si stanno commettendo degli obbrobri di cui ahimè, presto si pagheranno le conseguenze. Alcune regioni, ad esempio, hanno istituito una specie di “Albo delle autentiche tradizioni”, musica inclusa: ma come si fa a stabilire se un canto o un cantore folk o una processione della Settimana Santa siano o non siano tradizionali? Chi mai potrebbe stabilirlo oggettivamente? Su che base, quale presupposto? 

La questione è molto complessa e rinvio alla letteratura specifica: sono comunque disponibile per eventuali richieste di chiarimenti e quanto altro.Origini e diffusione di un genere tanto amato

Ignazio Macchiarella

Ignazio Macchiarella professore Ordinario di Etnomusicologia presso l’Università di Cagliari. Fra l’altro: è segretario generale dell’European Ignazio MacchiarellaSeminary on Ethnomusicology (Esem); membro del Research Centre for European Multipart Music (UniversitätfürMusik und darstellende Kunst di Vienna); è stato vice-presidentedello Study Group on Multipart Music dell’International Council for Traditional Music (Ictm/Unesco); è stato presidente del comitato italiano dell’ICTM/Unesco). Fra i temi trattati nei suoi lavori: lo studio delle multipart music come mode of musical thinking, expressive behaviour and sound; i rapporti fra musica e religione/musica e rito; l’analisi formale delle espressioni musicali trasmesse oralmente. Ha avuto incarichi e responsabilità di ricerca nell’ambito di programmi nazionali e internazionali. Ha partecipato a numerosi convegni scientifici in Italia, negli Stati Uniti, in Cina, Francia, Inghilterra, Portogallo, Austria e altrove. Ha all’attivo più di 150  pubblicazioni fra monografie, saggi su riviste specializzate, volumi collettivi ed opere multimediali (compresi lavori in inglese, francese, tedesco, spagnolo) https://web.unica.it/unica/page/it/ignazio_macchiarella 

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Mauro Lisei

Direttore di coro, Ricercatore e Armonizzatore di melodie popolari, Compositore e Didatta. Dopo la Laurea in Musica al D.A.M.S. di Bologna, dove segue i corsi di Armonia e Analisi con F. Donatoni e A. Clementi, di Etnomusicologia con R. Leydi, Estetica con U. Eco, Semiologia e Metodologie didattiche con G. Stefani, porta avanti le sue ricerche nell’ambito della musica di trasmissione orale e pratica il canto tradizionale sardo, di cui realizza numerose trascrizioni e armonizzazioni. Frequenta corsi di Composizione e Armonizzazione su materiale popolare, con L. Donati, D.Venturi e M. Zuccante e di Direzione con D. Tabbia, C. Pavese e A. Cadario. Consegue un Master in “Metodologie dell’Insegnamento Musicale” presso l’Università di Reggio Calabria, ottiene l’Abilitazione all’insegnamento di Ed.Musicale e intraprende l’attività di docente nella Scuola Secondaria. Ha fondato e diretto numerosi organici di ispirazione popolare, per i quali scrive composizioni originali e armonizzazioni di melodie tradizionali, incise in numerose pubblicazioni discografiche. Conduce e, in alcuni casi, organizza eventi corali, rassegne e convegni. Alcune sue armonizzazioni sono state inserite nel Progetto "Boghes", la più grande campagna di documentazione di canti tradizionali e devozionali della Sardegna mai realizzata dall' Istituto Superiore Regionale Etnografico in collaborazione con il Laboratorio interdisciplinare sulla Musica dell'Università di Cagliari. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti come compositore, armonizzatore e direttore, in ambito Nazionale e Internazionale. Email: maurolisei@libero.it
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