I canti della Messa. L’Ordinarium Missae: il Credo
Il canto del Credo è la professione di fede espressa coralmente dalla Assemblea Liturgica in risposta alla Parola che è stata ascoltata. A dire la verità il culto liturgico occidentale ha accolto questo testo in un periodo relativamente tardivo e comunque dopo svariate tappe di avvicinamento; originariamente, infatti, lo troviamo unicamente quale professione di fede prima del Battesimo e specialmente nel mondo orientale. Sempre da quest’area culturale, partì l’iniziativa di recitarlo durante la Messa: infatti, “intorno al 515, il Patriarca di Costantinopoli dispose che prima di incominciare la prex eucharistica venisse recitato da tutti il Credo. La novità incontrò ben presto il favore di tutto l’Oriente, tanto che l’imperatore Giustiniano II lo sanzionò come legge, nel 568”1.
In ambito occidentale, i primi documenti che riferiscono a proposito del Credo sono gli atti del Concilio di Toledo (589) i quali riferiscono della sua collocazione prima del Pater Noster in preparazione alla Comunione: anche in questo caso, il documento si preoccupa di raccomandare la forma assembleare della recita: “voce clara a populo decantetur … secum formam orientalium ecclesiarum … priusquam dominica dicatur oratio …”2. Dalla Spagna, la prassi di cantare la Professione di Fede venne assunta anche in Francia, precisamente presso la Cappella Palatina di Aquisgrana: Carlo Magno, infatti, verso la fine dell’VIII secolo, quando ormai meditava l’unificazione dei riti conseguente alla medesima azione in ambito politico di un unico nucleo quale il Sacro Romano Impero, lo volle introdurre collocandolo subito dopo il Vangelo e da qui, la prassi si diffuse in breve in tutta la Gallia. Dal X secolo l’uso liturgico del Credo si riscontrò un po’ ovunque, ad eccezione di Roma che faticò non poco ad assumerlo definitivamente: Benedetto VIII lo accettò soltanto nell’anno 1014 in occasione della solenne incoronazione del Re Enrico II, elevato successivamente alla gloria degli altari.
Nella liturgia del tempo, la Professione di Fede entrò, come detto, in modo progressivo anche nell’uso corrente: dapprima fu riservato alle celebrazioni più solenni e solo successivamente esteso a tutte le domeniche ed alle festività di maggior rilievo. A partire dal XIV secolo iniziarono ad essere vigenti le norme attuali che culminano con quanto ci indica la Terza Edizione Italiana del Messale Romano nel suo Ordinamento Generale:
“Il Simbolo, o professione di fede, ha come fine che tutto il popolo riunito risponda alla parola di Dio, proclamata nelle letture della Sacra Scrittura e spiegata nell’omelia: e perché, recitando la regola della fede, con una formula approvata per l’uso liturgico, faccia memoria e professi i grandi misteri della fede, prima della loro celebrazione nell’Eucaristia”3.
“Il Simbolo deve essere cantato o recitato dal sacerdote insieme con il popolo nelle domeniche e nelle solennità; si può dire anche in particolari celebrazioni più solenni. Se si proclama in canto, viene intonato dal sacerdote o, secondo le opportunità, dal cantore o dalla Schola; ma viene cantato da tutti insieme o dal popolo alternativamente con la Schola. Se non si canta, viene recitato da tutti insieme o a cori alterni”4.
In relazione al testo, oggi ci sono giunte due versioni: la prima, più concisa e snella, è denominata “Simbolo Apostolico” ed il suo utilizzo si preferisce in celebrazioni nelle quali è più chiara la matrice battesimale. Per tale ragione, esso viene proposto in maniera prioritaria nelle domeniche di quaresima, specialmente quelle dell’Anno Liturgico di ciclo “A” che riassumono i caratteri della iniziazione cristiana. Più largamente utilizzata la seconda versione, leggermente più prolissa: “Nella Messa fu adottata la formulazione che si trova negli atti del Concilio di Calcedonia (431) e che è la sintesi dogmatica dei precedenti concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381). Da cui la sua denominazione di Credo niceno-costantinopolitano”5.
Un ultimo cenno di indagine analitica lo merita indubbiamente il fatto che il Credo non sia compreso negli schemi che il Graduale Romanum ci offre a proposito degli altri canti dell’Ordinarium; ciò avviene, evidentemente, per l’ingresso relativamente tardivo della professione di fede nell’azione liturgica, in un periodo nel quale il repertorio di canto gregoriano era ormai ultimato. Perciò, nel Kyriale, in appendice troviamo solo sei versioni melodiche, a differenza degli schemi proposti per gli altri canti che sono invece diciotto: “Delle sei melodie riportate nel KR, la più antica è quella del Credo I. Fa da base per il Credo II, V e VI. Le melodie del Credo IV e III sono tardive e del periodo post-classico; appartengono rispettivamente al sec. XV e al sec. XVII. Se togliamo, quindi le melodie del Credo IV e III, non rimane altro che la melodia «autentica» del Credo I”6. Il Credo III, per la sua struttura fortemente tonaleggiante, viene collegato ed unito alla così definita “Messa De Angelis”.
Terminato il periodo monodico ed iniziando ad affacciarsi le timide sperimentazioni di tipo polifonico, anche per il Credo si prospettava il medesimo destino toccato alle altre parti dell’Ordinarium; le prime esperienze mature di polifonia ebbero forma con le messe “cicliche” del Trecento e Quattrocento, sotto la spinta propulsiva dei compositori fiamminghi. In modo particolare, si instaurò una stretta relazione tra il Gloria ed il Credo, anche in considerazione della prolissità dei testi, ben più lunghi di quelli delle altre parti; la composizione, risultava, pertanto, di tipo sostanzialmente omoritmico a differenza di Kyrie, Sanctus e Agnus Dei maggiormente pregni di contrappunto.
L’impostazione non si modificò sostanzialmente nell’epoca rinascimentale, che fu però caratterizzata da un definitivo sviluppo della pratica contrappuntistica; Gloria e Credo rimasero per lo più omoritmici, e a cambiare furono i temi a seconda dell’appartenenza alle Messe “parafrasi” o a quelle definite “parodia”. Nelle prime l’idea melodica è presa dal Cantus Firmus, ossia da un frammento di canto gregoriano precostituito, mentre la Messa Parodia è costituita da un impianto armonico e melodico costituente un mottetto precedentemente composto. Inutile ricordare, a tal proposito, che la scuola romana rappresentata, su tutti, da Giovanni Pierluigi da Palestrina, fu paradigmatica per le composizioni di queste tipologie di opere sacre.
Tra il 1620 ed il 1640, secondo l’indicazione di Jerome Roche, nacque la prima “Messa Orchestrata”, composta da Ercole Porta ed accompagnata da un’orchestra completa a cinque parti di violini e tromboni7: inizia quindi l’epoca del “concertato” durante la quale, anche nelle Messe, si intrufolarono sinfonie nel Gloria e nel Credo. Ne conseguì che “doveva diventare altrettanto sottinteso suddividere in brani di senso compiuto anche altri testi, ad esempio, il Credo (Et incarnatus – Cricifixus – ecc.), come da molto tempo si usava fare con le fughe sull’Amen”8. Gloria e Credo diventano più avanti addirittura composizioni a sé stanti (vedi Vivaldi), di rara bellezza ma anche di eccessiva lunghezza per le esigenze rituali: nella Messa in Do minore di W.A. Mozart, ad esempio, come l’Et incarnatus est “per la grande estensione valga quanto una composizione autonoma”9.
Pur nelle differenze stilistiche, la situazione proseguì fino ai giorni nostri: la liturgia riformata dal Concilio Vaticano II sembra avere dimenticato l’opportuna dimensione cantata del Credo, che viene quindi il più delle volte recitato (talvolta anche malamente e di fretta) disattendendo l’invito del Messale. Anche la prassi dell’alternatim non sembra aver mai trovato il favore della pratica, nonostante pregevoli pagine di musica degnissima di essere inserita nel contesto rituale.
In altra circostanza abbiamo già ricordato che lex orandi, lex credendi. Ecco per concludere che “Il Symbolum è, dunque, la carta d’identità con cui il credente riconosce la propria fede e la esprime narrandola in canora bellezza. La musica, per sua natura, ha una straordinaria capacità di narrare professando la propria fede. Se con il cuore si crede, con la bocca si professa la propria fede. Cuore e bocca: l’Amore è Mistero, esprimere l’Amore è cantare il Mistero. Nel momento sacramentale della celebrazione della Messa, al termine della Liturgia della Parola, il Credo, come atto di fede personale, non può essere delegato ad altri, così come ad altri non si delegano i propri gesti d’amore. Il Credo, infatti, col pretesto di vacua solennità, non può né deve essere eseguito come una sorta di piacevole riflessione artistica affidata a un gruppo di professionisti o banali cantilene canticchiate da avventurieri di zavorre anti-musicali. L’esecuzione del Symbolum deve essere vera e propria professione di fede proclamata e perciò cantata in entusiasmo come atto d’amore personale, cosciente, libero, gratuito e comunitario. Il Credo, che sgorga dal cuore, fiorisce sulla bocca col canto: professione di fede testimoniata nell’incanto d’amore donato, accolto e ridonato”10.
1 A. Turco, Il canto gregoriano, Corso fondamentale, pag. 55, Edizioni Torre d’Orfeo Roma, 1996.
2 Citazione riportata da V. Donella, Musica e Liturgia, pag. 195, Edizioni Carrara Bergamo, 1991.
3 Ordinamento Generale del Messale Romano, Struttura, elementi e parti della Messa, § 67, pag. XXV, III Ed. Italiana, Roma 2020.
4 Ordinamento Generale del Messale Romano, Struttura, elementi e parti della Messa, § 68, pag. XXV, III Ed. Italiana, Roma 2020.
5 V. Donella, Musica e Liturgia, pag. 195.
6 A. Turco, Il canto gregoriano, Corso fondamentale, pag. 56.
7 Jerome Roche, La musica liturgica in Italia dal 1610 al 1660, in Storia della Musica, V, p. 407, Feltrinelli, Milano.
8 W. Kolneder, Vivaldi, pag.291-292, Ed. Rusconi, Milano 1878.
9 V. Donella, La musica in Chiesa nei secoli XVII-XVIII-XIX: Perdita e recupero di una identità, p. 137, Ed. Carrara, Bergamo, 1995.
1o G. Liberto, Cantare la professione di fede, pubblicato in https://www.korazym.org/7713/cantare-la-professione-di-fede/ ed ivi presente al 04 maggio 2024 ore 11:45.
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