Josquin Desprez, (1450-1521) uno dei più grandi musicisti del Quattrocento, fu cantore, tra l’altro, della Cappella Musicale del Duomo di Milano dal 1459 al 1473. Affermazione, questa, che può sembrare estemporanea e priva di particolare interesse, se non per il fatto che ci accingiamo a celebrare il cinquecentesimo anniversario dalla sua morte; il che ci consente non solo di ricordarne l’opera (altri articoli della presente pubblicazione ne daranno opportunamente risalto), ma anche di focalizzare brevemente la nostra attenzione sulla attività delle Cappelle nelle quali hanno operato proprio Josquin ed i suoi contemporanei.
Il Quattrocento, ossia l’età che la cultura definisce come “Umanesimo” inteso genericamente come la rinnovata fiducia nelle capacità e nelle possibilità dell’uomo, si apre con il colpo di coda dell’Ars Nova che pone i primi sperimentali fondamenti della polifonia; si chiude quindi definitivamente il periodo medioevale e, seppur parzialmente, anche l’epoca della monodia (soprattutto quella sacra) che aveva ultimato la sua parabola compositiva ed espressiva. In tale contesto, all’ars nova trecentesca franco-italiana “succede una forte espansione dell’operosità musicale, che si dirama in due prevalenti tendenze creative. In un senso vengono alla luce formazioni sonore progressivamente complesse ed arricchite, inventate e scritte da maestri d’Inghilterra (John Dunstable, 1390 ca. – 1453) e di Borgogna, indi delle Fiandre e di Francia. In un altro senso risulta diffusa la pratica del cantare a solo a mente poesia mondana, accompagnati da strumenti convenienti – lire, vielle, liuti -; oppure trionfa l’esercizio del donare virtuoso: è questa l’inclinazione cortese e popolare che risulta favorita in Italia”.
E’ indiscutibile che nelle grandi Chiese e Cattedrali, ad inizio Quattrocento si registra uno stile esecutivo ancora in fase di definizione: da un lato una monodia costituita dal canto gregoriano ma anche, forse soprattutto, da altre forme cantate dell’epoca tardiva, opportunamente definite quali “composizioni della decadenza”: molte di esse avranno, per altro, vita tutto sommato molto breve, come i tropi (quasi immediatamente abbandonati dalla prassi comune e sfociati in altre più nobili opere) e le sequenze (del tutto abolite, o quasi, dalla controriforma del Concilio di Trento). Rimase sostanzialmente immutato il tesoro degli inni il quale, per la verità, non è parte del repertorio della Messa, bensì di quello dell’Ufficio Divino. Accanto alle forme monodiche troviamo “una polifonia in cerca di identità, ancora aspra e primitiva”, cioè una operazione certamente innovativa e di prospettiva interessantissima, ma che necessitava pur sempre di una fase sperimentale, costituita da una tecnica ancora acerba ed immatura destinata, col passare dei decenni, a divenire caratteristica non solo di questa epoca, ma soprattutto del periodo successivo, quello rinascimentale: stiamo parlando del contrappunto. Agli inizi, osservandola con uno sguardo periferico, la sua produzione risulta essere di “una perizia artigianale eccezionale, ma anche, e spesso, (colma di) aridità, gioco per sé stesso, intreccio macchinoso, in cui l’anima si perde asfissiata e la parola liturgica si trova spaesata, schiacciata e violentata”. L’operazione di “bonifica” dello stile contrappuntistico fu accennata da molti compositori franco-fiamminghi, tra i quali spicca il già citato Josquin; molti di essi, peraltro, si spostarono verso in modo particolare l’Italia, quasi a voler involontariamente creare una sorta di “sintesi” tra la rigidità matematica, il rigore formale tipico del nord Europa e la bontà melodica, l’adattabilità stilistica tipiche del nostro paese da sempre. Non a caso, proprio Josquin “sarà il mago in grado di trasformare il freddo materiale in creazioni palpitanti: la sua ‘musica reservata’, oltre ad appagare i contemporanei con i quali è perfettamente in linea, supera i confini del provincialismo storico per imporsi come prodotto finalmente perenne, vitale e coinvolgente”. Tale illuminata operazione non sarà ovviamente destinata a rimanere perimetrata nel tempo; questa nuovo stile polifonico diventerà la base di lancio per l’effettiva maturità espressiva e la definitiva consacrazione che si otterrà qualche anno più avanti nella perfezione della composizione rinascimentale, il cui esponente di indiscusso rilievo fu Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594).
Ma chi erano i fiamminghi e come mai registriamo una loro presenza così massiccia nell’Italia del XV secolo? Anzitutto essi costituirono una grande corrente musicale mitteleuropea, sostanzialmente trasversale, collocata nell’area dalla attuale Francia centrorientale, del Belgio, dell’Olanda e parte della Germania del nord: tali regioni “sollecitano e proteggono ogni specie di azione artistica, e la musica stessa, come elemento sostanziale della cultura”. Iniziati alla musica in scuole ecclesiastiche e impiegati come Pueri Cantores nelle Cattedrali, terminavano nelle università la loro formazione per poi tornare nelle Cappelle come dipendenti di un Capitolo oppure di una facoltosa Signoria. “Qui svolgevano articolate mansioni o di dignitari ecclesiastici, o di alti burocrati, di diplomatici, mentre esercitavano il loro magistero musicale”; per alcuni di loro, invece, parallelamente alla carriera musicale, si affiancava anche quella ecclesiale, benché quest’ultima non sempre fosse una strada scelta per vocazione. All’epoca cui facciamo riferimento, infatti, era consolidato il ricorso ai benefici ecclesiastici: ancora agli inizi del Novecento il Codex Iuris Canonici del 1917 li definiva con queste parole: “un ente giuridico costituito od eretto in perpetuo dall’autorità ecclesiastica, composto da un ufficio sacro e dal diritto di percepire i redditi della dote, spettanti all’ufficio” (canone 1049).
Come si può facilmente intuire, attraverso la pratica del beneficio ecclesiastico era possibile che ci si avvalesse dei servizi di un importante musicista senza dovere affrontare una spesa proibitiva: di contro, il cumulo di tali benefici, pur costituendo un vergognoso abuso, allo stesso tempo coincise con un’epoca di grande fioritura delle Cappelle, specie quelle delle (relativamente) piccole Corti. “Entro la fine del XVI secolo, la pratica di concedere benefici ecclesiastici ai cantori era ormai consolidata. Prelati e principi secolari disponevano di solito all’interno dei loro territori, di una quantità di benefici che distribuivano ai cortigiani meritevoli. Ogni beneficio comprendeva una rendita annuale, che veniva riscossa dal beneficiario; l’ammontare delle rendite era variabile, ma una prebenda in una chiesa cattedrale poteva fruttare al possessore dai 40 ai 50 franchi l’anno. Molti benefici venivano conferiti ‘in commendam’, per cui il beneficiario riscuoteva le rendite, ma non era tenuto a risiedere nella chiesa né ad occuparsi delle comunità. In genere queste ‘sinecura’ venivano assegnati ai cantori di cappella, che in questo modo erano liberi di servire i loro signori, e di viaggiare con loro”. L’abolizione di tali privilegi, sancita di fatto dal Concilio di Trento, portò ad un considerevole ridimensionamento del fenomeno ed alla conseguente estinzione di quasi tutte le formazioni professionistiche slegate dall’ambito ecclesiale.
Non possiamo, tuttavia, negare che l’età aurea delle Cappelle Musicali fu proprio nei secoli XV e XVI, quando esse si moltiplicarono, si dotarono di organici eccelsi, ed organizzarono la propria attività attraverso statuti e regolamenti; tra Cattedrali e Corti ne sorsero a Roma (Cappella Sistina e Cappella Giulia), Milano (Duomo e Sforza), Venezia (San Marco), Firenze (Medici), Napoli, Ferrara, Torino, Mantova, Parma, Loreto, Padova ed in tante altre sedi italiane, tutte formate da musicisti professionisti, e ovviamente senza il bisogno di un direttore, inteso come la moderna prassi ci consegna; non se ne percepiva l’impellente necessità. L’organico era infatti costituito da pochi elementi, tutti più che formati, ed anzi, in casi non sporadici, autori essi stessi della musica eseguita; questo aspetto non trascurabile, apriva conseguentemente due scenari decisamente interessanti: da un lato, ogni Cappella si identificava con uno stile vocale ed esecutivo peculiare e particolare, quasi a caratterizzarne l’identità come un nobile “marchio di fabbrica”. Dall’altro, la presenza di numerosi compositori all’interno dei singoli organici, rappresentava una sostanziale “biblioteca” perennemente rifornita, al punto che ogni cappella aveva un archivio, corposo e preziosissimo, lascito perenne dei musicisti che vi avevano prestato servizio; in relazione alle forme musicali del periodo, è bene ricordare tra le altre, il mottetto e soprattutto la Messa (più specificamente l’Ordinarium Missæ), definita “parodia” in quanto il suo impianto tematico deriva da una composizione preesistente, generalmente ispirata al canto gregoriano.
Da notare, oltre a ciò che abbiamo appena descritto, che a differenza della “Schola Cantorum” di medioevale reminiscenza, la Cappella tende ad eseguire integralmente il repertorio del Proprium e dell’Ordinarium, cancellando, di fatto, ogni possibilità di dialogo con il clero o il popolo; infine, da rilevare che alcune Cappelle (specie legate al mondo ecclesiale) accolgono i bambini nel loro organico stabile, per appunto fin dai tempi dei fiamminghi; si nota, infatti, “che l’assieme migliore e più proporzionato è quello del cantus affidato ai fanciulli o in loro sostituzione ai falsetti, dell’altus (tenori acuti), del tenor (tenore normale) e bassus (basso)”. E, come ben sappiamo, questa disposizione d’organico ha raggiunto il periodo contemporaneo, così come l’eredità delle Cappelle Musicali del periodo è, tuttora, fonte di ispirazione e potenziale modello da seguire per le generazioni attuali e future.