Sono solo canzonette (?)
Tra i sospiri dell’amor profano, strizzando l’occhio a Palestrina & c.
Mi dispiace per i fan di Edoardo Bennato, ma questo articolo non è un tributo al famoso concept album del 1980: lasciando da parte Peter Pan e la storia che ha ispirato il cantautore, ci troviamo qui in un altro tempo e in un altro mondo. E non mi riferisco nemmeno al Mondo Piccolo della Bassa parmense di Giovannino Guareschi, laddove il don Camillo del grande schermo esclama «Oh, mo è davero da incossienti far suonare le canzonette invece che dirmi che fine ha fatto Pepone!», mentre maneggia nervosamente con la vecchia radio della canonica, in attesa di scoprire se l’amico/nemico sia riuscito davvero a diventare deputato1. Dobbiamo fare un salto indietro ancor più grande.
Di solito il vezzeggiativo (detto anche ipocoristico) nella lingua italiana connota affettivamente la parola alla quale è applicato: la rende dolce, tenera, innocente, piccola, quasi tascabile. Nel nostro caso, questa dotazione linguistica si è sbizzarrita in un tripudio di grazie, carinerie e dolcezze da far schizzare il tasso glicemico: villotte, villanelle, canzonette, madrigaletti, e poi una selva — o un giardinetto — di ghirlande, corone, fiori e fioretti, e ancora fiammelle (più o meno amorose), leggiadre ninphe, amorosi diletti, e via di questo passo. Il tutto servito in varie salse regionali, come piatti tipici: alla napolitana, alla romana, alla padovana, e a seguire con grechesche, giustiniane, toscanelle, ecc. Ma davvero vale sempre l’antico adagio Nomina sunt omina? Davvero il genere canzonetta del tardo Rinascimento — e qui sveliamo l’arcano del titolo — è un prodotto dimesso, un vezzoso diminutivo per qualcosa di futile? Questo repertorio è veramente figlio di un dio minore, una caramella vietata ai diabetici, roba per poche voci e di poco conto, una sorta di giochino amoroso, rigorosamente separato dai grandi monumenti madrigalistici del tempo, dove l’amore è un arnese serio? Davvero «sono solo canzonette»?
Di recente mi sono occupato dell’edizione delle opere profane superstiti di un compositore bresciano, frate conventuale attivo a cavallo tra Cinque e Seicento, allievo di Costanzo Porta: si tratta di Valerio Bona (1560 ca. – 1620 ca.)2, più noto (ingiustamente) come autore di un compendio di Regole del contraponto et compositione brevemente raccolte da diversi autori3. Tutto era partito come un esercizio offerto a due giovanissimi allievi: si trattava di trascrivere una manciata di canzonette a tre voci, semplici, sulle quali farsi un po’ le ossa con la scrittura di fine Cinquecento, mettendo in pratica quanto appreso, senza troppe complicazioni mensurali o semiografiche. Poi la volontà di completezza ci ha preso la mano e i brani hanno superato la sessantina, tra canzonette, trii strumentali e madrigali a cinque e sei voci4. Questo lavoro mi ha messo quindi a confronto con un repertorio che ho sempre considerato frivolo, un po’ distante dai miei interessi. Mi ero già imbattuto in un’altra raccolta di composizioni a tre voci di Bona, in questo caso sacre, che ho pubblicato anni fa5: l’autore le presentava come esercizio di svago «che cosi alla giornata per mio diporto hò composta»6. Ma lì si trattava di messe e mottetti, roba seria, da preti e da frati. E come spesso avviene, ho dovuto ricredermi. Laddove all’apparenza gli anonimi testi poetici si dipanavano nello stile tipico della canzonetta — intrisi quasi sempre dei consueti e un po’ smielati temi dell’amore rincorso, ferito, negato, ricambiato, combattuto, premiato e via dicendo —, qua e là comparivano citazioni della grande produzione colta del madrigale tardo rinascimentale. Tra le tediose vicende di baci, sospirî, martirî, ardorî, dardi, tormenti e di tutta la santabarbara del duello amoroso, Bona lanciava ponti più o meno espliciti tra questo repertorio — nato per dilettare senza troppo impegno l’ozio di autori e fruitori della provincia piemontese — e i colossi della scrittura profana del tempo. L’amore si faceva serio o si stava solo burlando della serietà?
Prima di analizzare questo fenomeno di intertestualità7, è bene tracciare brevemente le caratteristiche formali del repertorio in questione, inquadrandolo storicamente8. Quella che nasce con la denominazione unica di canzon villanesca nella prima metà del Cinquecento (spesso accompagnata dalla specificazione alla napolitana), prenderà poi la denominazione di villanella a partire dalla metà degli anni ’60 del secolo, assumendo tratti linguistici e morfologici diversi dalla coeva villotta e delineandosi come una composizione in più strofe, ciascuna delle quali si adatta musicalmente alla prima, con un discorso musicale segmentato in sezioni giustapposte e ripetute, in uno stile contrappuntistico sillabico e un’omoritmia segnata da rapidi schemi ritmici. Tra gli anni ’70 e ‘80 del xvi secolo si impone il termine canzonetta per indicare lo stesso repertorio, pur tra mille varianti terminologiche più coloristiche che tipologiche. I testi poetici iniziano a circolare, ad ampliarsi e a ricambiarsi nei contenuti. Lo stile, pur accomunato dall’etichetta della canzonetta, spesso straripa, sul piano poetico e musicale, nella forma del madrigale e della canzone. Tra il 1570 e il 1615 si ha il maggior ricambio del repertorio, con forti novità sotto il profilo dei temi e dei contenuti. Il testo poetico (quasi sempre un’unica strofa) viene trattato a metà tra lo stile canzonettistico — con sezioni musicali stringate e subito reiterate — e quello madrigalistico — dove il testo è reso quasi irriconoscibile nella sua frammentazione in porzioni spesso minuscole. Nello stile più schietto di canzonetta, la dizione più rapida di brevi porzioni testuali passa tra le voci, con imitazioni spesso più ritmiche che melodiche di brevi incisi, per unirsi poi in passaggi omoritmici, senza l’uso di veri e propri temi fluttuanti in successione nelle varie voci. L’avvio in ritmo dattilico, tipico anche della canzone strumentale, passa poi spesso all’uso di rapidi schemi ritmici scattanti, con eventuali fioriture vocali di tipo madrigalistico. Non manca al contempo una scrittura di tipo accordale, con elementi ritmici frammentati e aderenti ad una pronuncia efficace del testo, aspetti derivati direttamente dalla tradizione della villanella.
Venendo ora nel concreto degli esempi analizzati, occorre fare una precisazione. La formazione e la produzione di un musicista di chiesa come il nostro Bona, per di più religioso conventuale, era tutt’altro che circoscritta al repertorio da chiesa. Se non ci deve stupire che un frate scrivesse di amori ben poco sacri e molto mondani, ci deve ancor meno sorprendere che l’apprendimento dello stile e del linguaggio per un musicista del xvi secolo si fosse abbeverato, fin dalla fanciullezza, alle opere dei grandi madrigalisti e canzonettisti del tempo, navigando tra i capolavori di Jacques Arcadelt, Cipriano de Rore e Orlando di Lasso, e ancora Giovanni Pierluigi da Palestrina, Orazio Vecchi e Luca Marenzio, solo per citarne alcuni. Insomma: i musicisti di un tempo erano molto meno settoriali di oggi.
Il secondo libro di canzonette a tre voci del 1592 di Valerio Bona ci offre diversi esempi di citazioni, di rimandi diretti e indiretti a un repertorio conosciuto da tutte le parti in gioco: compositore, esecutori e fruitori. Nella canzonetta Sarà vero o mio sole troviamo una citazione di Sarà possibil mai di Orazio Vecchi, tratta dal terzo libro delle canzonette a quattro voci del 15859, laddove il testo canta in entrambi i casi «ohimè dolce mia vita, troppo mi sa crudel la tua partita». Il riferimento intertestuale si esprime nella forma dell’omaggio, della citazione che rimanda ad altro (e ad altri) senza un vero impegno emulativo. L’allusione alla sezione omoritmica, colta nella sua dimensione ritmica più che melodica, è qui sufficiente a far identificare l’archetipo, laddove l’identità testuale diventa occasione di rimando o, al rovescio, il desiderio di omaggiare si appropria di una porzione che è insieme testuale e musicale. In Creddo ch’all’hor nasceste è il celeberrimo madrigale a cinque voci Vestiva i colli e le campagne intorno di Giovanni Pierluigi da Palestrina10 ad essere citato, offrendoci qui lo spunto, a ridosso del quinto anniversario dalla sua nascita, di ritornare alla produzione profana del Prenestino, meno nota di quella sacra. Qui il riferimento è di tipo più squisitamente parodico, laddove non è l’aspetto strutturale a prevalere, ma quello esclusivamente melodico e testuale. Bona riutilizza il testo con la relativa linea melodica dell’incipit originale nella sezione finale con ripresa (aabcc), mantenendo, seppur con un organico e un ordine diverso, il carattere imitativo degli ingressi vocali, secondo una modalità non sconosciuta allo stesso Palestrina, che ne fa uso in alcune sue messe-parodia11. Un discorso a parte va riservato alle quattro canzonette Dalle fiamme del foco, Non è fera, Vist’hò tall’hor e Non s’accorge, che musicano quattro stanze consecutive di un’unica canzone. In queste, Bona cita alcuni frammenti testuali e melodici tratti dalla seconda e terza parte del madrigale di Luca Marenzio Deggio dunque partire lasso12. La porzione melodica sul testo «sarà certo miracolo d’amore» della seconda parte del madrigale marenziano viene qui assunta e valorizzata nella sua spiccata caratterizzazione sillabico-ritmica nella prima stanza, mentre nelle altre tre è il breve inciso «se resto vivo» a riprendere, talvolta nel solo profilo melodico, talaltra nel connubio melodia–testo, elementi propri del madrigale. Si realizza qui dunque un terzo modello di citazione. Se nel rimando a Vecchi, infatti, il riferimento è di tipo verticale — con una ripresa della struttura polifonico-ritmica del materiale originale, con assoluto riguardo del testo — e in quello di Palestrina è la ripresa melodica dell’intero primo endecasillabo del madrigale a guidare la parodia, in quest’ultimo esempio la citazione si va rarefacendosi, diventa via via più allusiva. Dapprima attraverso la ripresa di una precisa porzione melodico-testuale nella prima stanza, che rimanda subito all’archetipo marenziano, il riferimento si fa poi discreto nelle stanze successive, ma ugualmente chiaro, ricorrendo solo a brevi incisi che lo mantengono vivo, senza dover ricorrere a citazioni più estese.
Gli esempi ricordati ci aprono a un approccio più profondo e consapevole a questo repertorio. Diventa chiara l’importanza di ricercare con cura gli eventuali rimandi intertestuali e metatestuali13, non tanto (o non solo) per ragioni performative, quanto per entrare davvero in un mondo colto, raffinato e pervasivo, coi suoi legami intimi e nobili, più o meno espliciti. Nell’orizzonte di una memoria fatta di contaminazioni e intrecci, questi testimoni graziosi della poesia in musica ci svelano un lato meno appariscente della produzione del tardo Rinascimento, dei suoi riferimenti e del suo ricercato retroterra che parla la lingua di Palestrina, Marenzio e degli altri giganti anche quando il contesto appare semplice, quasi ingenuo, senza vincoli e senza pretese. Davvero è il caso di dire che ‘non sono solo canzonette’, con buona pace di Bennato, di don Camillo e dell’amor sacro.
1Don Camillo e l’onorevole Peppone, 1955, regia di Carmine Gallone
2Cfr. JOSEF-HORST LEDERER, Bona [Buona], Valerio, Grove Music Online: https://doi.org/10.1093/gmo/9781561592630.article.03474 (10.10.2024).
3Bernardo Grasso, Casale 1595; ed. moderna: Valerio Bona, Regole del contraponto et compositione, A.M.I.S., Bologna 1971
4L’edizione critica, corredata da uno studio introduttivo, uscirà nel 2025 nella collana Corpus Musicum Franciscanum del Centro Studi Antoniani di Padova. Si tratta delle opere profane superstiti, cioè Il secondo libro delle canzonette a tre voci con l’aggionta di dodeci Tercetti a note (Ricciardo Amadino, Venezia 1592, RISM: 990006169), Il quarto libro delle canzonette a tre voci di Valerio Bona (erede di Simon Tini e Francesco Besozzi, Milano1599, RISM: 990006170) e Madrigali et canzoni a cinque voci di Valerio Bona libro primo (Angelo Gardano, Venezia 1601, RISM: 990006171).
5Missa, et motecta ternis vocibus … quibus in fine accesserunt Magnificat sexti toni à 6. Et falsi bordoni à 3. Omnitonum, eredi di Francesco e Simon Tini, Milano 1594, RISM: 990006162. Edizione moderna: Valerio Bona, Missa et motecta ternis vocibus. Milano 1594 (Corpus Musicum Franciscanum 48/1), introduzione ed edizione critica di Denis Silano, Centro Studi Antoniani, Padova 2021.
6Ivi, lettera dedicatoria.
7Si veda a riguardo Maria Caraci Vela, La filologia musicale. Istituzioni, storia, strumenti critici. Volume ii, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2009, pp. 117–173.
8Si rimanda a Concetta Assenza, La canzonetta dal 1570 al 1615, Libreria Musicale Italiana, Lucca 1997 (Quaderni di Musica/Realtà, 34), da cui sono tratte le informazioni seguenti.
9Canzonette di Horatio Vecchi da Modona Libro Terzo A Quattro Voci, Novamente posto in luce, Angelo Gardano, Venezia 1585, RISM: 990066041.
10Tratto da Il Desiderio. Secondo libro de madrigali a cinque voci, de diversi Auttori […], Girolamo Scotto, Venezia 1566, RISM: 993120404.
11Cfr. Veronica Mary Franke, Palestrina’s Imitation Masses. A Study of Compositional Procedures, Fondazione Giovanni Pierluigi da Palestrina, Palestrina 2007, pp. 107–113.
12Tratto da Il secondo libro de madrigali a 5 voci movamente [sic] composti, et dati in luce, Angelo Gardano, Venezia 1581, RISM: 990039285.
13A questo scopo, è prezioso il sito RePIM – Repertorio della Poesia Italiana in Musica, 1500-1700, https://repim.itatti.harvard.edu/resource/repim:formSearch.