Nisi enim ab homine memoria teneantur soni pereunt quia scribi non possunt. [1]. Se n’era già accorto Sant’Isidoro di Siviglia († 636): i suoni vivono solo nella memoria. O meglio: sopravvivono grazie ad essa. E che i suoni, e la voce nello specifico del nostro mestiere, non siano altro che ‘aria sbattuta’ — «Vox est aer spiritu verberatus»[2] — è un’altra verità consegnataci dall’illustre Dottore della Chiesa. Ad essere sinceri, una verità assai scomoda da accettare e sulla quale è bene non arrovellarsi troppo, pena il rischio di considerare la propria esistenza alla pari di quelle increspature atmosferiche sull’onda delle quali (è proprio il caso di dirlo) giochiamo tutta la nostra vita artistica.
Musica come ‘arte del tempo’, che vive di una concretezza legata all’istante. Ma pur sempre arte, il cui spazio vitale è la memoria: ‘arte della memoria’, per l’appunto. Detta in questo modo, la consapevolezza di quanto preziosa agli occhi (e alle orecchie) di un musicista sia la dimensione mnemonica della ‘materia’ di cui è fatta la musica risplende in tutta la sua atavica importanza. Un’arte, quella della memoria, che divenne fin da subito (forse un secolo dopo le affermazioni di Isidoro) il motore dei primi tentativi di fissare sulla carta il gesto sonoro, così da sollecitare e adiuvare la memoria del cantor chiamato a conservare e trasmettere il repertorio liturgico della Chiesa, soprattutto quando quest’ultimo doveva giungere (più o meno intatto) fino ai confini dell’Impero carolingio. Ma, a ben vedere, uscendo dai confini dell’Europa medievale, il desiderio di affidare alla scrittura quanto poteva servire a riprodurre o solo a liberare dalla finitezza mnemonica una melodia, risale fin alle più antiche testimonianze della musica greca, fin all’epitaffio di Sicilo, agli inni delfici del III e II secolo a. C., e forse prima.
Che la memoria dovesse essere aiutata e organizzata non era certo una novità. Fin dal mondo greco e latino, l’arte della retorica (una delle discipline del trivium medievale, insieme alla grammatica e alla dialettica) ci ha consegnato testi destinati a educare i giovani alla visualizzazione del proprio percorso oratorio attraverso i cosiddetti loci della memoria. Non è un caso che tra i testi più copiati nel Medioevo ci sia proprio l’anonima epistola Ad Herennium, che dedica una sezione alla memoria[3] che ebbe grande successo ancora nel Seicento inoltrato. L’ars musica, per contro, fin dai tempi della sistematizzazione del sapere ad opera di Boezio tra V e VI secolo, con quell’organizzazione della conoscenza che lui stesso definì quadrivium, non si occupava della musica come modernamente la intendiamo, ma dei numeri. Sintetizzando molto: l’aritmetica era la scienza del numero in sé, la musica era la disciplina che studiava i rapporti tra i numeri (le proporzioni), la geometria quella del numero nello spazio (le figure), e l’astronomia quella deputata alle figure in movimento (gli astri, appunto). Il tutto inserito nell’orizzonte neoplatonico boeziano, nel quale la musica divenne prerequisito necessario allo studio della filosofia[4].
Ma torniamo alla necessità di mettere per iscritto quei soni che scribi non possunt, o, per usare una felicissima espressione con cui Thomas Forrest Kelly intitola un suo libro, al tentativo di ‘catturare la musica’[5]. L’apparente contraddizione tra ciò che per natura si dissolve nell’atto stesso del farsi suono e la possibilità di fissare sulla pergamena dei segni utili a richiamarne in vita l’esistenza ha impegnato non poco i teorici al servizio del progetto di riforma carolingio[6]. Non è questo il luogo per approfondire la nascita della notazione neumatica in quel contesto[7], ma un aspetto occorre sottolineare per il nostro scopo: la notazione musicale, fin dalle origini, non ha mai esaurito — né ha mai voluto o potuto farlo — tutta la ricchezza di informazioni necessarie all’esecuzione. In un’epoca come la nostra, intrisa di maniacale controllo di ogni dettaglio formale e procedurale, nella quale tutto deve essere esasperatamente precisato e normato, la funzione mnemonica dei segni notazionali antichi ci sembra un’inaccettabile compromesso al ribasso nell’esigenza di determinazione e di univoca interpretazione degli stessi. Eppure, tutta la musica antica è segnata proprio da questa dicotomia, insanabile perché non necessitante di sanazione: la compresenza di oralità e scrittura, di elementi definiti e di ermeneutica contestuale, situazioni nelle quali le mnemotecniche intervenivano stabilmente nel guidare gli esecutori a portare a compimento il proprio compito. D’altronde, il segno stesso presuppone la memoria, rimandando ad altro da sé. Come ha ben evidenziato Anna Maria Busse Berger, occorre «abbandonare l’immagine semplicistica di una cultura musicale scritta che sostituisce quella orale a favore di un’immagine più articolata, in cui oralità e scrittura interagiscono in molte forme, spesso anche inaspettate»[8].
I vari passaggi storici che hanno condotto, dal tardo Medioevo all’Età moderna, allo sviluppo della notazione occidentale si caratterizzano certo per una progressiva accentuazione della precisione notazionale, con riferimento in particolare alla durata dei suoni, ai loro rapporti temporali precisi e all’organizzazione generale del tempo. Proprio quest’ultima dimensione segna la linea di demarcazione tra ars antiqua e ars nova, tra XIII e XIV secolo: la nuova concezione del tempo musicale, non come ciclico ritorno di unità di perfezione temporale intese come entità sostanziali, ma come un continuum, organizzato attraverso i quattro gradi di Johannes de Muris (che diverrà poi la struttura di modus, tempus e prolatio della notazione mensurale), in una concezione essenzialmente additiva[9]. Ad integrare e rendere più efficace questo desiderio di precisione notazionale, intervenne un elemento già noto, ma da quel momento fondamentale per la complessità dei ritmi che andavano sviluppandosi, sebbene di una semplicità grafica disarmante: il punto (punctum), che verrà da ora in poi — siamo intorno agli anni ’20 del Trecento — a definirsi nelle sue diverse funzioni distintive. Un elemento grafico minimo fin dalle notazioni neumatiche, dal significato polivalente, al pari di altri, che si determina con precisione solo nel contesto. Ben altro dall’accezione predeterminata e univoca che il segno è andato acquisendo in tempi a noi più vicini.
Du Fay, Salve flos Tuscae, tenor, I-MO, Modena B | Obrecht, Missa L’homme armé, Credo, tenor, A-Wn, Vienna 11883 |
Josquin Despez, Liber primus Missarum, Missa L’homme armé super voces musicales, Agnus Dei, tenor, O. Petrucci, Fossombrone 1516. |
In un suo studio illuminante, dotato di un titolo già di per sé suggestivo, Where Sight Meets Sound. The Poetics of Late-Medieval Music Writing[10], Emily Zazulia analizza il rapporto tra la dimensione visiva e quella aurale della scrittura musicale del tardo Medioevo (soprattutto a partire dalla notazione del tenor), entrando negli aspetti semiografici e interpretandoli alla luce della loro natura polisemantica. Zazulia pone in campo la distinzione tra ‘segni’ e ‘metasegni’, cioè tra alcuni elementi notazionali — forma delle note e delle pause e loro collocazione nel rigo — e quelli — chiavi, alterazioni in chiave, segni mensurali e canoni verbali — che hanno il compito di stabilire l’esatta interpretazione dei primi nel contesto specifico. Ciò che colpisce della semiografia del periodo analizzato è proprio la distanza tra la nostra percezione della notazione musicale, come qualcosa di meramente strumentale e unidirezionalmente proiettato, e una dimensione scrittoria nella quale ciò che è notato richiede un percorso interpretativo che è già di per sé arte, artificio tanto più complesso quanto apparentemente fine a se stesso, che, proprio perché privo di alcuna ricaduta sull’ascoltatore, solleva l’esecutore dal suo ruolo meramente meccanico e lo proietta nella sfera ‘misterica’ del compositore e dell’arte della memoria. Un percorso, insomma, nel quale “a consequence of giving notation a role in musical aesthetics is the implication that notation may also take part in musical ontology”, laddove la notazione non è puro strumento accessorio, tecnologia finalizzata ad un obiettivo aurale, ma è parte stessa di quel percorso teso a ‘catturare i suoni’ non solo nella loro dimensione sonora, acustica, ma nell’orizzonte in cui il dato grafico è anch’esso arte, nel quale «the piece itself is the idea that sight and sound will not match — that the song is written in notes that “are not always sung as they appear at first sight”»[11].
Questo approccio ci libera dalla frustrazione di predeterminare, come su una mappa nautica, le precise coordinate nelle quali inserire ogni aspetto di quella musica che appartiene a repertori molto lontani nel tempo. Ma soprattutto ci mette in guardia dalla presuntuosa illusione che il percorso della musica e della sua notazione si collochi su una linea evolutiva, nella quale ‘noi’ siamo più avanti di ‘loro’, che un iperdeterminismo notazionale, in cui tutto è univocamente definito e precisato, sia l’unico (o il miglior) orizzonte nel quale si possa evitare che soni pereant. «There are things that post-literate technologies do better (e.g., controlling timbre, sampling) and things they do less well […]. Undoubtedly these technologies will continue to change how we interact with music, just as notation did for our forebears»[12].
Ciò che è scritto è molto, o è poco, a seconda dei casi, ma in ogni caso non è tutto, e non lo è sempre allo stesso modo, e nessun modo è il migliore, né completo o definitivo. E in alcuni casi ciò che è scritto non è come sembra, perché l’arte dei suoni sfugge alla tentazione di imprigionare gli stessi in un confine così ristretto come il segno grafico, senza costringere chi lo legge ad interpretarlo alla luce di quella memoria con la quale teneantur soni. Insomma: un percorso virtuoso e tortuoso, dove la musica vive nella memoria e la memoria vive nel segno che la illumina e la guida senza mai esaurirla o sostituirla.
Se i suoni muoiono nel loro stesso nascere e lo sguardo li incontra solo pallidamente sul campo di una notazione che non dice tutto e talvolta sembra dire altro, che cosa resta della nostra ricerca di verità, tra le pagine che antichi copisti ci hanno consegnato? Come coniugare esigenze interpretative e desiderio di adesione fedele a quanto giunto a noi? Come districarci, senza cadere nel baratro del soggettivismo, tra ciò che è esplicito e ciò che non lo è? Mondi sonori lontani e defunti giungono a noi solo attraverso la mediazione del dato testuale, sia esso musicale, didattico o cronachistico, e ci impongono sempre la cautela di evitare interpretazioni viziate da quel rigore che trasforma le ipotesi in dogmi.
Ben inteso: questo non ci esime dall’avvicinarci alla musica antica munendoci di quelle competenze storico-musicologiche indispensabili per quella che, ormai da tempo, si definisce ‘historically informed practice’. Anzi: è proprio un approccio storicamente maturo ed informato che ci fornisce l’antidoto ad una visione limitante della notazione (e della sua interpretazione), intesa come fissazione totale e totalizzante del dato musicale secondo paradigmi del tutto coincidenti con i nostri moderni parametri. Un ulteriore invito a fare un passo indietro di fronte al desiderio malsano di avere anche solo la pretesa di poter riprodurre, in modo univoco e incontrovertibile, le condizioni sonore, ambientali, mentali e culturali del passato. Il quale, per sua natura, oltre a sfuggire ancora e sempre alla nostra bramosia di ‘com-prensione’ (nel senso letterale), di certezze ‘as-solute’ e risposte ‘im-mediate’, ci invita in ogni momento ad essere meno categorici e più curiosi.
[1] Isidorus Hispalensis, Etymologiae, III, 15: «Se i suoni, infatti, non vengono trattenuti dall’uomo nella memoria, svaniscono, poiché non possono essere scritti» (traduzione dello scrivente).
[2] Ibid., III, 20: «Vox est aer spiritu verberatus, unde et verba sunt nuncupata» (La voce è aria percossa dal respiro, motivo per cui le parole sono così chiamate).
[3] L’ordine dell’opera è il seguente: inventio, dispositio, elocutio, memoria e pronuntiatio. Sull’argomento si veda Francis A. Yates, L’arte della memoria, Torino 1993.
[4] Si veda ariguardo: Calvin M. Bower, The transmission of ancient music theory into the Middle Ages, in The Cambridge History of Western Music Theory, ed. By T. Christensen, Cambridge 2002, pp.136-167.
[5] Thomas Forrest Kelly, Capturing Music. The Story of Notation, London 2015.
[6] Per un’utile sintesi dello sviluppo della teoria musicale nell’alto Medioevo, si vedano: Kalvin M. Bower, The transmission of ancient music theory into the Middle Ages, in The Cambridge History of Western Music Theory, ed. by Thomas Christensen, Cambridge 2002, pp.136–167; David E. Cohen, Notes, scales, and modes in the earlier Middle Ages, in The Cambridge History, op. cit., pp. 307–363.
[7] Si veda a riguardo Susan Rankin, Writing Sounds in Carolingian Europe, Cambridge 2018.
[8] Anna Maria Busse Berger, La musica medievale e l’arte della memoria, Subiaco 2008, p. 301.
[9] Karen Desmond, Music and the moderni, 1300-1350. The ars nova in Theory and Practice, Cambridge 2018, pp. 197-202. Si rimanda a tutto l’ottimo studio, per una panoramica più approfondita sull’argomento.
[10] Emily Zazulia, Where Sight Meets Sound. The Poetics of Late-Medieval Music Writing, Oxford 2021.
[11] Ibidem, p. 252
[12] Ibidem, p. 254.
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